Street art: al carcere di Rebibbia a Roma Moby Dick, Michelangelo e il Cristo tatuato della Pietà
Lo stret artist a disposizione del progetto che vuole trasformare le carceri da istituti di pena a istituti di cultura. E sul Cristo della Pietà michelangiolesca i tatuaggi dei carcerati diventano «un processo antropologico che riporta la memoria di ogni detenuto del carcere» ROMA - Street art nelle carceri ma soprattutto con le carceri. Per portare fra i detenuti il valore aggiunto della cultura e del gesto artistico che si fa esperienza comune e partecipazione ad un rito collettivo. “L’arte non ha sbarre” progetto della Biennal MArteLive in collaborazione con le Officine GM di Giulia Morello, con il Patrocinio del Garante dei Detenuti del Lazio, ha scelto Roma e il Carcere di Rebibbia per la sua prima tappa. E da ieri uno straordinario murale ispirato all’arte michelangiolesca, spicca a Rebibbia. Anticipando di qualche giorno il 10 dicembre, Giornata Mondiale dei Diritti Umani indetta dalle Nazioni Unite per ricordare la proclamazione della dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948, il 7 dicembre era stato presentato il progetto che, grazie alla collaborazione con lo street artist Moby Dick, avrebbe portato l’arte a Rebibbia. Il rappresentante del Pop Surrealismo made in Italy e già presente alle 53esima Biennale di Venezia e allo Jarvitz Center di Manhattan a New York, aveva infatti presentato l'idea per un murale sul tema dei diritti umani all'interno della Casa di Reclusione. Con lui il cantautore Gianluca Secco e Vittorio Lattanzi, Patrizio Smiraglia ed Edmondo Luigi Settembrini del giornale satirico Lercio. «L’obiettivo è portare l’arte e la cultura nelle carceri sia come intrattenimento sia come vera e propria formazione – spiega Giulia Morello ideatrice del progetto - L’idea di base è trasformare gli istituti di pena in istituti di cultura, dove si fa e si apprende cultura per migliorarsi, dove le contraddizioni e le energie presenti vengono valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso contenitivo». «Ho voluto rappresentare questa opera per far sembrare i muri del carcere tridimensionali, quasi una scultura. Per dare l’impressione che quei muri di cemento siano muri di marmo, e perciò più preziosi – racconta Marco Tarascio in arte Moby Dick - ho scelto di rappresentare il David e la Pietà di Michelangelo perché sono due statue simbolo dell’arte italiana, che ci invidiano nel mondo per bellezza, genio e impareggiabilità tecnica e artistica. Il David in primo piano sembra guardare di spalle la Pietà. Nella Pietà, oltre al dolore c’è un abbraccio, la cosa più forte come contatto. Come richiamo alla vita dei detenuti e come segno-simbolo che spesso portano sul corpo, il Cristo sulle gambe di Maria riporta alcuni tatuaggi dei detenuti, attualizzando quindi il dolore e l’amore allo stesso tempo, ed in modo realistico. Ogni detenuto che ha partecipato all’iniziativa – conclude l’artista - ha potuto mostrare il suo e quindi avrà qualcosa di suo che resterà impresso su quella immagine-statua come un ricordo, come un processo antropologico che riporta la memoria di ogni detenuto del carcere. Perciò l’opera, apparentemente identica a quella di Michelangelo, ha impresso un pensiero, una scritta, un nome che rivive sulla pelle del Cristo così come su di loro». «Il progetto – spiega ancora Giulia Morello - intende unire la valorizzazione della persona allo sviluppo della sua autonomia, coerentemente con la vocazione dell’art. 27 della Costituzione, andando nella direzione di un re/inserimento sociale. La street art in questo caso non è solo rigenerazione sociale e del territorio, ma anche umana. Roma è la capitale della Storia, dell’archeologia, ma è sempre più proiettata nel futuro come capitale dell’arte contemporanea. Per questo chiederemo di inserire l’opera realizzata all’interno della mappatura della street art romana». {igallery id=8545|cid=843|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} ...